L’immagine è senza dubbio la forma di comunicazione più immediata, espressione libera di un soggetto, prodotta dalla mano dell’autore, con qualunque mezzo: un pezzo di carbone, una matita, dei colori ecc. Straordinaria è la sua ‘’immediatezza nel descrivere” e la potenza evocativa. La scrittura è già un’elaborazione e un’astrazione dell’immagine e anche la parola necessita di un’interpretazione.
Di fronte ad un’immagine nessuno rimane indifferente: qualcosa turba o “disturba”.
Tutte le religioni, le culture, i poteri, comprendendone il pericolo, hanno esercitato una qualche forma di controllo sull’immagine: utilizzazione, proibizione, censura, ecc. La religione cristiana più di ogni altra, si è servita delle immagini per acculturare i fedeli. Ricordiamo la grande diffusione delle storie sacre attraverso gli affreschi, forme artistiche che hanno avuto anche importante funzione didattica. Non deve sorprendere dunque che proprio lo Stato della Chiesa, per primo ne percepisse anche un aspetto pericoloso e imponesse un controllo sulla diffusione delle immagini prodotte mediante il nuovo, incredibile frutto dell’ingegno umano, la Fotografia. Si può anche pensare che la Chiesa vedesse con un certo sospetto un’invenzione che veniva da Francia e Inghilterra, nazioni europee che avevano mostrato incerta reverenza ai suoi dettami. Nella Cattolica e Scolastica Università Parigina si era coltivata l’ortodossia, ma Pietro Abelardo, fautore della Logica, era entrato in dura polemica con Bernardo di Chiaravalle e poco tempo dopo Filippo IV il Bello aveva imposto il controllo sull’elezione dei Vescovi. In Inghilterra Enrico VIII aveva osato proclamarsi capo della chiesa anglicana.
Teniamo presenti alcuni fattori :
• alla fine del Settecento, diviene pressante l’esigenza di comunicare anche con immagini: su imitazione della classe nobile anche la classe borghese desiderava immagini che confermassero il nuovo status raggiunto e richiedeva un mezzo che permettesse di ottenere immagini in gran numero ed in maniera economica.
• poche tecniche consentivano all’epoca la produzione di un’immagine in notevole numero: la tecnica dell’incisione, su rame (calcografia) o su legno (xilografia), e alla fine del secolo, la litografia, più economica e più rapida, che consentiva la riproduzione senza incisione della lastra.
• l’immagine da riprodurre doveva essere disegnata a mano, dipendeva dalla perizia del disegnatore, richiedeva parecchio tempo e non poteva essere di grande precisione.
Se si fosse trovato un modo per riprodurre “automaticamente” le immagini illuminate dalla semplice luce solare…Questa esigenza costituirà il punto di svolta.
LINGUAGGIO ANALOGICO
Tralasciamo la storia dei vari tentativi, peraltro interessante, che portò alla nascita del procedimento fotografico, per puntare l’attenzione sull’avverbio “automaticamente”.
La Fotografia, quale tecnica, nasce e si diffonde a partire dagli anni ’40 dell’Ottocento.
Lo strumento utilizzato è una scatola a tenuta di luce in cui viene messo l’elemento fotosensibile (verso la fine del secolo diventerà la familiare “pellicola”), dalla parte opposta si colloca un obiettivo. L’apparecchio viene portato di fronte al soggetto, l’obiettivo viene aperto, permettendo alla luce riflessa dal medesimo di riprodursi sull’elemento fotosensibile. L’immagine è fatta: il soggetto si è letteralmente “autoriprodotto”, sulla pellicola che, dopo essere stata sviluppata, presenterà il soggetto in negativo. Il negativo verrà stampato su una carta fabbricata appositamente e il soggetto riapparirà positivo. La tecnica, negativo – positivo, pur con svariati perfezionamenti, è la stessa che si utilizza ancora oggi, sia nel Bianco/Nero che nel colore, ad eccezione che nella foto digitale. Dobbiamo dire che il “file raw”, prodotto durante la ripresa, può essere assimilato in tutto e per tutto al negativo fotografico in quanto ha riprodotto l’immagine del soggetto, anche se non su pellicola ma su un sensore.
La fotografia si estende in quella frazione di tempo in cui l’obiettivo si apre e si chiude. In tal modo si fotografa la realtà “nel tempo”: nell’immagine riprodotta, la realtà sarà riprodotta secondo un ordine temporale dal momento che la luce ha una velocità assoluta. Se si vuole definire matematicamente questo concetto, possiamo dire che una foto è una derivata prima rispetto al tempo, ed il continuum spazio-temporale potrà essere diviso in intervalli sempre più ristretti e tendenti a zero dai quali “derivare” l’intervallo della funzione “realtà”. Guardando una foto prodotta con questo metodo, anche se la foto risale a oltre un secolo fa, possiamo osservare l’effetto fotochimico prodotto in quel momento sulla carta dal soggetto stesso. Poiché è il soggetto che si riproduce attraverso la luce da lui stesso riflessa, senza altro mezzo, è proprio la “mancanza di mediazione” che dà alla fotografia un effetto di comunicazione unico, non riproducibile con nessun altro procedimento di riproduzione iconica. Questa “potenza” fu immediatamente percepita come quasi soprannaturale, anche dalla cultura ottocentesca che proveniva dall’illuminismo.
Non mancano del resto episodi in cui l’arrivo di un fotografo in un paese è stato visto come il presentarsi di un individuo esperto di misteriose “magie”.
Ancora oggi in molte culture non è facile fotografare una persona, in maniera particolare il volto, quasi essa temesse che si potesse rapirle l’anima. Negli anni ‘50 E. De Martino nel suo viaggio nel sud dell’Italia doveva prendere particolari precauzioni e seguire particolari rituali nel fotografare, perché molte persone avevano la convinzione che la loro fotografia potesse essere utilizzata a proprio danno, o avesse una qualche valenza magica. La fotografia analogica è dunque ottenuta con la proiezione del soggetto su un elemento fotosensibile che, tranne alcuni specifici casi, è uno strato di sali d’argento.
Questa scelta fu fatta fin dall’inizio, poiché dalla chimica si sapeva che alcuni sali dell’argento presentavano una grande sensibilità alla luce che decomponendoli li ritrasformava in argento metallico, di colore scuro.
L’immagine dunque è data da un grande insieme di microscopici cristalli di argento metallico, l’emulsione, che è in grado di restituire una grande gamma di sfumature e di riprodurre un elevato numero di particolari.
LINGUAGGIO DIGITALE
La foto digitale non è molto diversa da quella analogica finché non si arriva all’elemento fotosensibile (sensore) che può avere varie dimensioni, da pochi millimetri di lato (come nei telefoni) a molti centimetri, nelle macchine professionali. Più grande e perfezionato sarà l’elemento fotosensibile, maggiore sarà la qualità dell’immagine e ovviamente il costo dell’apparecchio fotografico.
I sensori pur di diverso tipo e materiale hanno tutti una caratteristica comune: sono divisi in un numero molto elevato di elementi minimi, i cosiddetti pixel, kilopixel se in numero di migliaia, megapixels in numero di milioni. Ad esempio, un sensore digitale di una moderna macchina professionale delle dimensioni di 4×4 cm può essere suddiviso in 40 Mp, il che significa che l’immagine verrà suddivisa in 40 milioni di elementi minimi. Ognuno di questi elementi è codificato matematicamente in maniera univoca; tutti i pixel sono raccolti insieme in un ordine ben preciso in un unico documento, il file, che verrà aperto sul computer da un programma apposito che ricostituirà a video l’immagine ripresa.
Fortemente significativo che mentre nella fotografia analogica è tutta la superficie della pellicola a riprodurre l’immagine, in un continuum che può essere elaborato manualmente, ma solo fino ad un certo punto, nella fotografia digitale, invece, l’immagine viene suddivisa in quantità minime, al di sotto delle quali non è possibile andare, ma sulle quali abbiamo un controllo totale: anche un solo pixel può essere trasformato poiché le sue caratteristiche sono definite univocamente dalla struttura matematica del file.
Così se il linguaggio analogico permette alcuni interventi correttivi entro i limiti della sintassi analogica stessa, tale limite non esiste più nella sintassi digitale che per definizione ci permette il controllo totale di ogni unità minima di immagine. Non si possono dunque fare paragoni di tipo qualitativo sulle due tecniche: si tratta di due sintassi profondamente diverse.
Nella fotografia digitale, dal momento che abbiamo un controllo completo su ogni elemento dell’immagine, l’apparecchio fotografico non è più necessario. Ci sarà sufficiente creare dei pixel per creare immagini o documenti dall’apparenza assolutamente identica alla realtà. C’è tuttavia un limite: un’immagine analogica non potrà mai essere falsificata da una digitale: per quanto quest’ultima possa imitare persino la grana della pellicola, alla fine si potrà sempre dimostrare la sua “origine” digitale. Va considerata attentamente la differenza tra i due linguaggi: quello analogico non può essere elaborato più di tanto, quello digitale può elaborare tutto, anche se ciò può essere scoperto. Le due sintassi hanno una “forza”, ben diversa: il linguaggio digitale ci permette tutto e il contrario di tutto, a patto però che si resti al suo interno e questo ci può fornire una falsa illusione di onnipotenza.
Appena l’immagine digitale divenne di una qualità tale dal poter competere con quella tradizionale, cominciarono ad essere studiati programmi, diventati via via sempre più sofisticati, per “elaborare” l’immagine ottenendo effetti più vari.
Siamo convinti di dominare l’immagine, l’informazione, ecc. e non ci rendiamo conto che in realtà è il digitale che ci domina, con le sue regole ferree e perfette. Alla fine siamo diventati servi della nostra creazione che doveva permetterci di diventare padroni. In sostanza la digitalizzazione di un documento rimanda a una sua quantizzazione, a una quantità “discreta” di informazione al di sotto della quale non è possibile andare. Tuttavia in questo caso, come vogliamo ancora una volta sottolineare, i “quanti” sono indipendenti del tutto l’uno dall’altro.
Anche l’immagine analogica è quantizzata: non ci può essere particolare più piccolo di quello dato dall’obiettivo o dal tipo di pellicola o da ambedue. Ma la differenza fondamentale è che questi quanti sono collegati in un unicum. E dunque non è possibile manipolare particolari analogici senza che questo sia notato.
Potremmo quindi parlare di digitalizzazione tout court, o meglio come detto in francese di “numerique”, nel caso in cui ogni quanto è un “blocco” indipendente definito da numeri in un certo ordine.
Nell’immagine analogica, invece, i quanti minimi non sono indipendenti ma fanno parte rigorosamente dell’insieme continuo che costituisce l’immagine nella sua interezza. La grande potenza del digitale, e ad un tempo il suo lato inquietante, è nella capacità di manovrare completamente un’informazione, potendo controllarne ogni singolo componente.
Un’immagine fotografica può divenire, o meglio apparire come tale senza essere mai stata una fotografia, diventando, ad esempio, una prova di qualcosa che non è mai accaduto o lo è stato in maniera diversa da come viene raffigurato.
Un simile controllo su un mezzo così potente può dunque anche essere esercitato per pilotare l’opinione pubblica con esiti tali che non debbono e non possono essere sottovalutati o previsti nella loro complessità.
Ricordiamo che fisicamente la prevedibilità di un sistema è inversamente proporzionale al numero di elementi che interagiscono tra loro. Il grande antropologo dell’immaginario Gilbert Durand, ha evidenziato come i giganteschi mezzi di riproduzione e trasmissione di immagini del XX sec. abbiano portato all’interno della civiltà occidentale una rivoluzione culturale gravida di effetti che minacciano l’umanità stessa del Sapiens.
Fino a pochi decenni fa, nella civiltà occidentale ha operato incontrastata la supremazia della stampa (la cosiddetta “galassia Gutemberg”), la comunicazione scritta, con i suoi rigorosi procedimenti logici, sintattici. Di conseguenza il principio di realtà poggiava su un’unica procedura di deduzione della verità, di stampo aristotelico-cartesiano, basata sull’esclusiva valorizzazione dei procedimenti razionali e della logica deduttiva del post hoc propter hoc. I procedimenti immaginativo-intuitivi erano per lo più relegati al mondo fantastico.
L’improvviso instaurarsi di un regno onnipresente dell’informazione ha finito col veicolare un’enorme produzione ossessiva di immagini dal forte impatto emotivo convogliandole in un unico dominio, che potremmo definire dello ‘spettacolo’, nel quale tutto viene assorbito e si fonde, anche la cosiddetta informazione, che però continua a garantire la propria veridicità basandola sulla fiducia nel metodo sperimentale, proprio del razionalismo (dualismo sillogistico: vero/falso, tertium non datur). Le immagini sono frutto di una tecnica nuova e miracolosa, che ha voracemente ingoiato ogni forma e modalità espressiva del passato, sono l’icona di un nuovo dio onnipotente: il Progresso.
Il risultato, secondo Gilbert Durand, è un “effetto perverso”: le immagini, sempre più verosimili, hanno un fortissimo effetto ipnotizzante e finiscono con l’imporre il proprio messaggio a spettatori passivi, anestetizzati che hanno perso la capacità di discernimento critico, di giudizio, di valore e dunque di scelta. Non appartengono più al patrimonio identitario su cui si radica la cultura propria di un popolo e dei singoli che in essa si riconoscono, non sono più percepite come scaturite dall’immaginazione creativa che si esprime attraverso simboli vissuti e riconosciuti nella loro plurivocità e nello spessore semantico radicato da tempo immemoriale in ogni cultura e tradizione ancestrale. Ricordiamo allora il detto latino “timeo Danaos et dona ferentes” e concludiamo le nostre riflessioni sulla differenza tra immagini analogiche e digitali ribadendo la necessità di valutare attentamente le nuove ambigue potenzialità del linguaggio digitale.