Presentata nell’agosto del 1839 a Parigi, la dagherrotipia fu in assoluto il primo procedimento fotografico. La diffusione, il suo impatto psicologico furono enormi: al confine tra scienza e magia l’immagine cangiante, delicatamente fluttuante su una superficie specchiata, affascinava, spaventava, trovava detrattori, ma non lasciava nessuno indifferente.
La dagherrotipia durò all’incirca un ventennio; il limite del dagherrotipo era, infatti, proprio quello di essere un esemplare unico e non riproducibile. Nonostante questo la sua importanza dal punto di vista storico e culturale fu grandissima. Oltre alla sua bellezza intrinseca, esso fu il primo procedimento con cui l’umanità venne in contatto con il nuovo linguaggio fotografico.
Negli stessi anni W. Henry Fox Talbot metteva a punto in Inghilterra il procedimento negativo-positivo a noi familiare. Scoprendo lo sviluppo, che permetteva esposizioni alla luce brevissime se confrontate con quelle necessarie senza ed introducendo, su suggerimento di John Herschell, l’iposolfito di sodio per eliminare i sali d’argento residui e rendere stabile l’immagine (fissaggio), il negativo di talbot, che era su carta, veniva reso più trasparente con un trattamento a base di cera e stampato direttamente alla luce del sole per annerimento diretto.
Nel 1841 questa tecnica era pronta e fu utilizzata per almeno un ventennio con numerose varianti.
Dopo appena un decennio, nel 1851, F. Scott Archer utilizzò una sostanza, creata da pochi anni, per fare aderire al vetro i sali d’argento: il collodio.
Anche se la tecnica del collodio umido, se confrontata con le attuali, era incredibilmente lenta, complicata, poco pratica, essa aveva dalla sua parte la sensibilità alla luce, altissima per l’epoca, che permetteva tempi di posa brevi. La possibilità, di conseguenza, di scattare in condizioni di luce non elevata e una qualità di immagine invidiabile anche dalle migliori pellicole alla gelatina attuali.
Il collodio umido rimase tecnica incontrastata fino agli anni ottanta, quando divenne possibile la fabbricazione di materiali sensibili a base di emulsione alla gelatina.
Questa nuova tecnologia permetteva la fabbricazione di grandi quantità di gelatina sensibile e conservabile nel tempo e quindi la fabbricazione di grandi quantità di lastre o carte da stampa di qualità costante ed utilizzabili esattamente come facciamo noi al giorno d’oggi. Questa fabbricazione era assolutamente inadatta (e non conveniente) al singolo fotografo ma era perfetta come procedimento industriale.
Sulla scia dell’aumento della richiesta (che era stato costante per tutto l’ottocento) e come risposta a quella che potremmo chiamare seconda rivoluzione borghese, quella che prelude alla nostra “civiltà dei consumi”, nasce la fotografia moderna, quella a portata di tutti.
Chiunque poteva acquistare un apparecchio da ripresa, delle lastre, della carta da stampa e, con un po’ di apprendistato servirsi del mezzo fotografico.
Questo portò ad un evento storico fondamentale nella fotografia: la fine della figura del “protofotografo”, intendendo con questo termine coloro che per servirsi del mezzo fotografico preparavano da sé i propri i propri materiali.
Con la fine della “protofotografia” e la nascita della grande industria fotografica i fotografi delegheranno ad altri (cioè all’industria stessa) la fabbricazione dei propri mezzi espressivi: i fotografi, insomma, non sono più padroni della propria lingua.
Anche difettando in fantasia non si può fare a meno di immaginare cosa questo abbia significato per l’immagine: l’immissione, in pochi anni, di milioni di persone ad un mezzo di “produzione iconica” così potente e relativamente a buon mercato determinò un’autentica rivoluzione nel linguaggio.
Come in tutte le rivoluzioni ci sono state cose buone e cose meno buone, eccessi ed innovazioni benefiche e vantaggiose per il bene sociale.
In ogni caso c’è stata un’autentica inondazione di immagini di cui non siamo ancora in grado di valutare le conseguenze.
L’espansione di massa alla fine del diciannovesimo secolo, determinò un’autentica rivoluzione nel linguaggio dell’immagine, e, conseguenza ancora più rilevante, nella cultura dell’immaginario dell’umanità.