I procedimenti argentici sono quelli di gran lunga più diffusi nella stampa fotografica. Il loro nome deriva dal fatto che la loro sensibilità alla luce è data dai sali d’argento e l’immagine finale è costituita da particelle di argento puro.
I materiali argentici si possono distinguere fondamentalmente in due categorie: ad annerimento diretto e a sviluppo. I primi furono impiegati principalmente nell’Ottocento mentre i secondi entrarono lentamente nell’uso alla fine del secolo e sono attualmente gli unici utilizzati.
La tecnica di stampa in bianco e nero utilizzata attualmente fu introdotta nell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Il “procedimento alla gelatina-sali d’argento a sviluppo” fu chiamato così anche per distinguerlo da tutte le tecniche argentiche di stampa precedenti che erano ad “annerimento diretto“.
Lo sviluppo dell’immagine fu scoperto alla fine del 1840 da W.H. Fox Talbot. Sino ad allora l’unico modo per ottenere delle immagini era stato quello di esporre il materiale sensibile (in genere carta sensibilizzata con sali d’argento) alla luce per un tempo sufficiente ad ottenere l’immagine. Come si può immaginare, questo tempo d’esposizione era molto lungo, in genere di svariate ore; Talbot faceva numerosi esperimenti al fine di trovare preparazioni che avessero la maggiore sensibilità possibile.
Un giorno, in camera oscura, notò un’immagine su un foglio di carta sensibile che era stato esposto e che subito dopo l’esposizione sembrava inalterato. Preparò altri fogli con la medesima formulazione ed arrivò alla conclusione che a provocare l’immagine era stata l’aggiunta di acido gallico (un acido organico di origine vegetale) ai sali d’argento.
Con questo nuovo metodo era sufficiente una breve esposizione alla luce seguita dallo sviluppo per ottenere l’immagine: Talbot aveva scoperto il meccanismo immagine latente-sviluppo. Lo sviluppo permetteva di amplificare enormemente la leggerissima alterazione provocata dall’esposizione alla luce. Durante il trattamento chimico i sali d’argento esposti alla luce venivano ridotti in argento metallico elementare di colore grigio scuro in maniera proporzionale alla quantità di luce ricevuta; si formava, quindi, un’immagine “negativa”: più scura nelle zone più illuminate e meno scura in quelle meno illuminate, costituita da particelle finissime di argento. La chiave di volta della scoperta consisteva nel fatto che solo i sali d’argento esposti alla luce reagivano con lo sviluppo, gli altri non subivano alcuna trasformazione.
La nuova scoperta fu impiegata immediatamente nella ripresa dapprima con i negativi su carta, le talbotipie o calotipie; in seguito con la tecnica di ripresa al collodio umido (fino a circa il 1880) e quindi con i materiali da ripresa moderni su lastra di vetro o pellicola. Tutta la fotografia contemporanea si basa su questa scoperta.
Lo sviluppo era naturalmente applicabile anche alle tecniche di stampa, tuttavia per tutto l’Ottocento esso non fu usato che saltuariamente.
Le ragioni di questo furono varie: innanzitutto le immagini prodotte con lo sviluppo sono di un colore grigio più o meno neutro, mentre le tonalità preferite all’epoca erano quelle brune con sfumature spesso molto varie; all’epoca, inoltre la tecnica non era ancora sufficientemente perfezionata e le tonalità di grigio spesso presentavano intonazioni verdognole o giallastre che non ne favorivano la diffusione.
Sebbene la tecnica dello sviluppo permettesse una produzione numericamente molto elevata, per buona parte dell’Ottocento non vi fu questa esigenza, che invece divenne dominante alla fine del secolo quando la fotografia si trasformò in industria moderna.
Le carte in bianco e nero a sviluppo sono le uniche diffuse al giorno d’oggi, esse sono costituite dal supporto cartaceo su cui è steso uno strato bianco di barite che ha lo scopo di patinare la carta e di renderla più bianca, vi è poi lo strato sensibile di gelatina e sali d’argento in cui si forma l’immagine e quindi, ancora, uno strato protettivo in gelatina pura. Il colore dell’immagine, come detto, è di un colore grigio neutro, sebbene siano prodotte anche carte in grado di dare colori ad intonazione più calda.
Il colore delle stampe può essere variato con i viraggi, che sono trattamenti chimici che trasformano l’argento dell’immagine in altri composti di colore diverso. Tutte le carte a sviluppo possono essere virate, oltre che per cambiarne il colore, anche per aumentarne la stabilità nel tempo.
I viraggi più diffusi nella stampa d’arte sono quelli al selenio con cui si ottengono tonalità tendenti al porpora, quello all’oro per tonalità leggermente blu. Vi sono inoltre viraggi per toni bruni (il più famoso è il viraggio “seppia”) e per colori più decisi come il blu o il rosso.
Questi trattamenti erano molto in voga nei primi decenni del Novecento, quando il colore grigio originale delle stampe non era ancora molto accettato. Al giorno d’oggi, i viraggi rimasti in uso sono soprattutto quelli elencati poco sopra, ma all’epoca esistevano interi capitoli di manuali che riportavano formule per l’ottenimento dei colori più vari.