Se l’Ottocento e i primi decenni del Novecento vedono l’affermarsi della comunicazione mediante immagini. È con la seconda metà del Novecento che assistiamo all’autentico dilagare dell’immagine che diventa il media per antonomasia.
Così il paradosso è compiuto: da una civiltà al limite dell’iconoclastia, che vedeva ogni forma di rappresentazione iconica con sospetto si è passati ad una cultura che non può più vivere senza immagini in cui si può arrivare, proprio grazie alla potenza del mezzo, a non distinguere finzione da realtà.
Insomma la pretesa oggettività dell’immagine realizzata dal foro stenopeico o, ciò che è lo stesso dall’obiettivo, le forniscono il visto d’ingresso e contribuiscono alla sua più che libera circolazione nella nostra cultura…Che questo ingresso non si trasformi in un cavallo di Troia!
Il fatto di essere prodotta in maniera scientifica da un obiettivo ha sdoganato l’immagine facendola entrare di diritto nella cultura sillogistica e quindi immettendola a tutto diritto nella nostra civiltà.
In realtà restano, almeno, da esaminare due cose:
- se l’immagine prodotta dall’obiettivo sia veramente oggettiva, ammesso che ci si riesca a mettere d’accordo sul significato di questo termine o quanto meno a dargli una definizione.
- se l’inflazione di immagini cui siamo ormai quotidianamente sottoposti obbedisca a una qualche logica seppure nascosta della nostra civiltà e, in tal caso, quali siano i suoi aspetti religiosi (religo, unisco, trovo ciò che unisce) e quali i suoi aspetti diabolici (diabolon, ciò che divide, che semina discordia).
La parola stimola la fantasia e l’immaginario, l’immagine la blocca in qualche modo poiché impedisce all’immaginazione di lavorare anestetizzandola.
Mi riferisco, naturalmente alle immagini che quotidianamente ci vengono presentate, spesso con una violenza di cui non ci rendiamo più conto tanto ne siamo assuefatti, come verità assolute (rispondenti cioè al criterio del sillogismo).
Al contrario le immagini provenienti dall’immaginario possono stimolare e corroborare la nostra fantasia, fare insomma il contrario di un anestetico.
Senza volere con questo negare il principio di oggettività su cui si fonda la civiltà dell’Occidente, se è vero che la essa è figlia della cultura greca (pervenutaci in gran parte dalla mediazione islamica), è anche vero che in quella medesima cultura Apollo e Dioniso non erano così nettamente separati come spesso ci vengono presentati. Lo stesso Platone, come si accennava in nota, recupera in qualche modo l’elemento immaginario, soggettivo ed irrazionale, introducendo il mito nei suoi Dialoghi.
La scienza moderna, dal suo canto, derivata dal “Cogito” cartesiano e dal principio galileiano di oggettività (senza sottolineare come il pensiero galileiano sia debitore al neoplatonismo), si imbatte in uno strano elemento, introdotto in un anno fatidico, il 1900, da un dubbioso e perplesso Max Planck: il Quanto minimo di azione, che finirà per reintrodurre il soggetto osservante a livello di descrizione fondamentale del mondo fisico
Come conclusione mi torna spesso in mente la riflessione sul bombardamento di immagini cui siamo costantemente sottoposti che sopraffacendo la nostra riflessione ed il nostro immaginario, quasi impedendoci di pensare che possa esistere altra realtà.
K. Popper, propone non il criterio della verificabilità ma quello della falsificabilità di una teoria. Il procedimento non è più induttivo (da osservazioni particolari alla verità universale) ma deduttivo : una teoria è valida fintantoché non venga falsificata dall’osservazione empirica. Popper designa questo metodo col nome di “ipotetico deduttivo”: la teoria elaborata non ha caratteri assoluti, è un’ipotesi che resta valida a meno di non essere falsificata, cioè invalidata dai fatti osservati.
Ma quali sono questi “fatti osservati”? Le immagini oggettive che ci vengono proposte quotidianamente….. e il criterio per giudicarle?