La nascita della fotografia non fu affatto una sorpresa, dal punto di vista storico.
Essa fu una logica conseguenza dell’evoluzione illuministica e del porsi della borghesia a classe dominante, fenomeno caratterizzante la fine del settecento e, fondamentalmente tutto l’ottocento.
Anche la seconda rivoluzione, quella della fotografia di massa, con l’introduzione della nuova tecnica alla gelatina, dei nuovi supporti, fu un evento in qualche modo necessario e prevedibile quanto meno a livello tecnico. Così pure dicasi per l’odierna evoluzione digitale: sono tutte logiche conseguenze di un fenomeno già iniziato.
Quanto detto, tuttavia, ha un aspetto quanto meno contraddittorio per il fatto che con l’affermazione della fotografia e dei media iconici in generale, ormai divenuti dilaganti, ci troviamo di fronte ad un evento più unico che raro.
Lascio alle parole di Gilbert Durand, uno dei più autorevoli studiosi dell’immaginario, la descrizione di questo fenomeno:
“Una tale innovazione nella nostra civilizzazione […..], non ha soprattutto prodotto una dicotomia, una rivoluzione veramente «culturale», nella filosofia di biblioteca e di parola scritta che era stato l’appannaggio bimillenario dell’Occidente? [……] Tutte le civiltà non occidentali, ben lungi da prendere a fondamento il loro principio di realtà su un’unica verità, su un’unica procedura di deduzione della verità, sul modello unico dell’Assoluto senza viso e al limite innominabile, hanno stabilito il loro universo mentale, individuale e sociale, su fondamenti pluralistici, dunque differenziati. Ed ogni differenza – per alcuni ogni «politeismo dei valori» – è indicata come una differenza di figurazione, di qualità figurate, immaginate. Ogni «politeismo» è ricondotto dunque, ipso facto, alle immagini (iconofilo) o almeno a degli idoli (eidolon, in greco, significa immagine). Ora l’Occidente, cioè la cultura che ci sostiene a partire dal ragionamento socratico e dal suo battesimo cristiano, si è posto come superbo ed unico erede di un’unica Verità, ed ha sempre posto molta diffidenza nelle immagini.
Occorre precisare questo paradosso di una civiltà, la nostra, che da una parte ha dato al mondo le tecniche, in continuo progresso, della produzione, della riproduzione, della comunicazione delle immagini, e d’altro canto, dal lato della sua struttura filosofica portante, ha dato prova di una diffidenza iconoclasta (che distrugge le immagini o, quanto meno, le pone in forte sospetto) endemica.”
Alla diffidenza che è esistita, ed esiste tuttora, fin dai tempi più antichi all’interno delle religioni monoteistiche rivelate: Ebraismo, Cristianesimo, Islam, verso l’immagine come frutto dell’immaginario (iconoclastia) si aggiunge il modello filosofico che è alla base dello sviluppo della cultura occidentale e della conoscenza moderna: il sillogismo.
Questa forma di pensiero, sequenziale e razionale, non ammette dubbio: la risposta è si oppure no, “tertium non datur”. Ora, se c’è una cosa che sfugge a questo “controllo” è proprio l’immaginario.
“Molto presto, a questa iconoclastia religiosa, si aggiunse il metodo socratico che si fondava su una logica binaria (cioè con due soli valori, uno falso e uno vero), cosa che divenne man mano, attraverso l’eredità di Socrate, di Platone e quindi di Aristotele, il solo modo efficace di ricerca della verità.[………]
E’ chiaro che se il dato di una percezione o la conclusione di un ragionamento devono avere come conclusione solo proposizioni «vere», l’immagine – che non può essere ridotta ad un argomento formale «vero» o «falso» – è svalorizzata come incerta ed ambigua poiché non si può concludere dalla sua apercezione (la sua «visione») un’unica proposizione formale «vera» o «falsa». L’ immaginazione è sospettata, molto prima di Malebranche, di essere «foriera d’errore e di falsità».
L’espressione mediante immagini non permette, dunque, il “controllo” binario del sillogismo.
Ma ecco che con la fotografia il linguaggio, pur essendo per immagini, è prodotto da un mezzo tecnico frutto proprio della cultura sillogistica e razionale: l’obiettivo.
Questo strumento garantisce, o sembra, l’oggettività, la verità dell’immagine fotografica: essa è produzione di un obiettivo, quindi vera, un’altra immagine (paradossalmente anche se identica) non prodotta fotograficamente è falsa o quantomeno sospetta.
Il rassicurante criterio sillogistico è introdotto nell’immagine: è la natura stessa che si autoriproduce.
Forse non è un caso che essa nasca nello stesso periodo in cui l’idealismo hegeliano celebra il proprio trionfo e la propria contraddizione con la celebre frase «ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale».
Il trionfo dell’immagine prodotta fotograficamente, nella nostra civiltà, forse è proprio da ricercarsi in questa grande illusione, in questo “razionale inganno”: quello di servirsi di un mezzo oggettivo, che fa cadere la censura e la diffidenza verso l’immagine prodotta dall’incontrollabile immaginario.
Non a caso tuttavia, fin dalla sua nascita, la fotografia ha portato in sé una polemica, che ha raggiunto a volte toni alti e non s’è mai placata del tutto: se sia o non sia opera d’arte.
Ecco che il problema dell’immaginario si riaffaccia all’interno della nuova cultura.
Fin dall’inizio la polemica fra fautori del dagherrotipo e fautori del calotipo verteva proprio sul maggiore “effetto” di precisione, ricchezza di dettaglio e sfumature caratteristiche della prima tecnica, contro la maggiore “imprecisione” ed interpretatività del negativo cartaceo, che necessitava di uno sviluppo condotto “a vista” e, per di più, con un pennello (strumento pittorico per eccellenza).
Il negativo, inoltre, doveva essere stampato: altro momento altamente interpretativo e soggettivo, che poteva introdurre nella tecnica un comportamento non lineare e di rottura con l’originale fotografato.
Verso la fine dell’ottocento, quando, come abbiamo visto, la fotografia si avviava sempre più a divenire un fenomeno di massa, molti fotografi si ribellarono all’appiattimento del linguaggio insito in questo cambiamento e crearono un movimento, che potremmo definire tecnico-culturale, che rivendicava alla fotografia la sua dignità di arte autonoma che creava il proprio linguaggio: fu l’epoca del pittorialismo.
Quest’epoca è stata messa spesso sotto accusa per avere voluto imitare le tecniche pittoriche a scapito di una “vera” fotografia. Furono riutilizzate tecniche di stampa desuete e ne furono create di nuove e raffinatissime, proprio perché il linguaggio doveva trovare la sua piena espressività nel momento della stampa cioè della comunicazione del progetto grafico.
Per il sottoscritto il pittoricismo fu un tentativo di recupero dell’immaginario in uno dei momenti più drammatici della storia dell’immagine.
Tentativo, devo dire, riuscito sia per tanti risultati che ci ha lasciati sia per le tante tecniche di stampa che forse non avrebbero mai visto la luce.
Furono in molti, in effetti, ad accorgersi che le nuove inevitabili tecnologie e, soprattutto, il loro ergersi ad uniche possibilità di espressione fotografica potevano diventare il peggior nemico proprio dell’espressività stessa imbavagliandone le possibilità, distruggendone le raffinate ed uniche sintassi caratteristiche. Queste sintassi peculiari erano, come dicevamo poc’anzi, soprattutto quelle dei diversi procedimenti di stampa che proprio in quest’epoca conobbero la loro più straordinaria fioritura.
Personalmente queste polemiche, pur essendo importanti da un punto di vista storico, non sono sostanziali.
Ogni tecnica di produzione di immagini, qualunque mezzo utilizzi: pennello, matita, bulino, apparecchio fotografico o computer, è un tentativo di portare un progetto grafico dall’interno all’esterno, dalle tenebre alla luce; è un mezzo di comunicazione della nostra anima, e tutti abbiamo bisogno di comunicare.
Mi torna in mente che Ansel Adams, in uno dei suoi eccellenti libri dedicati alla ripresa ed alla stampa, afferma che se qualcuno andasse a visitare i luoghi da lui fotografati resterebbe meravigliato della differenza con le sue stampe, a prima vista così “realistiche”.
Il suo sistema zonale, dall’apparenza così preciso e pragmatico, insiste Adams, non è che un’indicazione, un insieme di consigli per un progetto grafico. Il sistema zonale, insomma, è una delle strade.